L’EREDITÀ DEL MAESTRO

“Noi  siamo  degli  assurdi  viventi  -  amava  ripetere  Cesari  parlando dei  genitori  - lavoriamo vent'anni perché un figlio cresca e, quando ci dice che ora vuol fare di testa sua, cerchiamo di impedirglielo. Perché? Ci siamo identificati con il nostro ruolo di  genitori  e  ci  sembra  che,  venendo  meno  quel  ruolo  e  la  funzione  ad  esso connessa, venga meno ogni significato della nostra vita. Dobbiamo tenere presente che questo processo di morte è un fatto fisiologico.

C’è una bella espressione, che dice: “camminare è tanto posare il piede, quanto alzarlo  e  la  morte  appartiene  alla  vita.  C’è  dunque  una  morte  costante  che dobbiamo vivere nel rapporto con i nostri figli.” Dalla sua morte sono passati quasi vent'anni, nel corso dei quali ciascuno di noi allievi ha continuato a far vivere e sviluppare, per vie diverse, quanto ricevuto singolarmente e collettivamente da quest’uomo così speciale per noi, che, senza che ci fossimo mai consultati in proposito, ciascuno di noi amava chiamare “maestro”.

Come semi caduti alla sua morte, siamo germogliati, da ciascuno di noi è cresciuta una pianta diversa per una terra diversa, perché la sua eredità era il giardino e ci voleva tempo perché il giardino desse fiori e frutti. Giuseppe Cesari era il nostro maestro. “Professore” si diventa  in grazia di un titolo di studio e svolgendo un ruolo. “Maestro” si diventa per elezione del cuore e in forza di un legame dello spirito. Come scriveva Aristotele: “insegnare è un atto d’amore”.

Ci vuole amore nel condurre quanto nel seguire, tanto nel tenere la mano quanto nel saperla lasciare.

 

Una metodica integrata: la cassetta degli attrezzi

Cesari  non  lavorava  come  un  intellettuale,  ma  come  un  artigiano,  come  un giardiniere dello spirito, e gli effetti del suo lavoro ne avevano la stessa concretezza. Nel suo lavoro non metteva solo la competenza, ma anche la sollecitudine, l’amore, la comprensione che viene dalla condivisione, dalla con- passione. Ogni volta che gli si dipanava davanti la propria vita o quella dei pazienti, lui si lasciava attraversare, muovere,  commuovere,  trovando  infine  la  sua  posizione  di  “accompagnatore”: “accompagnare il paziente, sempre un passo dietro a lui”. Non  si  lasciava  invischiare  nelle  nostre  storie  o  in  quelle  dei  pazienti,  ma  la  sua invulnerabilità non aveva nulla a che fare con l’indifferenza e nemmeno con la tanto decantata  “neutralità”  analitica;  era  piuttosto  una  forma  di  chiarezza,  che gli permetteva  di  distinguere  tra  i  suoi  problemi  e  quelli  degli  altri.  Proprio  questa chiarezza gli dava il privilegio

di lasciarsi commuovere, di partecipare emotivamente alle vicende degli altri. Non aveva bisogno di difendersi dal coinvolgimento perché, per lui, non lasciarsi invischiare non era un’auto-difesa, ma una forma istintiva di rispetto per l’altro.

Nello sviluppare le sue metodiche di lavoro, sia in terapia che nella supervisione e nell'insegnamento, Cesari integrava apporti da modelli differenti di psicoterapia e di formazione in un suo modo originale, che era  sempre misurato in funzione delle esigenze che emergevano dalla relazione col paziente: dei vestiti su misura, fatti ad arte,  misurati  sul bisogno  che  emergeva  al  momento.  Lui  imparava  da  tutti, ma quando era in relazione con il paziente, utilizzava gli strumenti che sentiva necessari, quando ne sentiva la necessità.

Quello che abbiamo sperimentato e che abbiamo imparato  con  lui  è  la  prima,  ed  è  stata  per  molti  anni  l’unica metodica  di psicoterapia integrata, costruita sulla relazione terapeuta-paziente e su un’assoluta

libertà di pensiero e di azione. Nella relazione terapeutica, come su una nave, si è “il solo padrone a bordo dopo Dio”, perché la libertà del terapeuta è garanzia della libertà e della auto- determinazione del paziente.

Più che di una metodica, si tratta di un’arte terapeutica, che si avvale di tutti gli strumenti che la scienza ha prodotto, ma senza identificarvisi, senza nascondersi o confinarsi in uno di essi. Le varie metodiche terapeutiche e le diverse teorie non vi vengono integrate come modelli che orientano e definiscono la terapia, ma come

strumenti: “una cassetta degli attrezzi” a disposizione del terapeuta e del paziente, per risolvere i problemi che di volta in volta si presentano nel concreto accadere della relazione.

Le teorie ed i modelli di psicoterapia sono astrazioni, le persone sono esseri viventi: le persone sono la verità e la concretezza della vita, quindi anche gli artefici delle teorie. Dunque le metodiche terapeutiche non devono essere un letto di Procuste su cui stendere le persone, mutilandole per adattarle al letto, ma un insieme di strumenti

al servizio della relazione terapeutica. Quale impulso all'integrazione delle scuole di psicoterapia!

Le differenze che a livello teorico appaiono inconciliabili, nella concretezza della vita diventano la sinergia di

una inesauribile fonte di energie creative. La prima formazione del maestro era stata psicoanalitica,  ma  questa cadeva,  fin  dall'inizio,  su  un  sostrato  arricchito  da esperienze  pratiche  varie  e  concrete.  Lui  aveva  fatto  una

incredibile  varietà  di mestieri,  dall'elettricista  al  giornalista,  all'amministratore,  al  giornalista.  Questa

ricchezza  di  esperienze  concrete  gli  permetteva  di  arrivare  alla  formazione  in psicoterapia con la sua anima incorrotta di artigiano e di uomo d’azione. E dunque, anche  le  astrazioni  della  psicologia  lui  le  misurava  sul  metro della  vita  e dell’esperienza.  Qualsiasi  astrazione  lui  la  faceva  diventare  esperienza  concreta. Qualsiasi discorso astratto, cervellotico e complicato, lui lo faceva diventare chiaro e semplice, lo traduceva in immagini concrete di vita vissuta. La  sua  concretezza  gli  permetteva  di  sperimentare  le  varie  metodiche, trasformandole  ed  integrandole  al  bisogno,  invece  di  deformare  le  persone  per adattarle alle metodiche. Questo aspetto del suo stile di lavoro faceva diventare ogni singola relazione terapeutica un terreno di ricerca. Tutto il suo modo di lavorare era una ricerca, un modo di imparare ogni giorno dai fatti che accadevano e di condividere, seduta stante, le nuove quotidiane scoperte.

Il suo stile di lavoro, spietatamente concreto, gli aveva fatto constatare che, per quanto onore dobbiamo a papà Freud, dobbiamo ammettere che i nevrotici di cui egli parla e sui quali aveva costruito la psicoanalisi oggi non esistono più, dunque anche nella metodica è necessario cambiare qualcosa, accogliendo tutti gli apporti delle altre teorie, accogliendo le osservazioni di tutti coloro che si sono confrontati con le  stesse tematiche, perché  l’essere umano  è pur sempre una  stessa  realtà complessa.

E dunque, disporre di metodiche non ci permette di applicarle meccanicamente, non ci libera dall'affrontare a mani nude la relazione col paziente e dalla necessità di ricominciare ad imparare la giusta metodica ogni volta. Ecco perché Cesari non ha   mai descritto in modo organico la sua metodica di lavoro: perché questa non è protocollabile, perché si impara nella relazione, si scandisce al ritmo del battito del cuore, si respira nell'aria, con gli odori, i suoni, gli sguardi, perché trae energia dalla compassione, che è il “sentire insieme” e dalla commozione, cioè dal sentire insieme

il movimento e l’emozione del prossimo passo. Ecco perché l’eredità di Cesari consiste molto poco in scritti, documenti video o audio. I pochi scritti erano sempre tracce per parlare, per comunicare di persona.

Scriveva sotto la spinta dell’urgenza o dal richiamato dal piacere di un gioco segreto con se stesso: la sua dimensione era il “fare”. Come tutti quelli che hanno fatto molto, ha scritto poco. Come Socrate, lui ha scritto nella gente, lasciando nelle persone tracce  significative  e  profonde,  perché  la  sua  vita  è  stata  una  ricerca,  una quotidiana scoperta.

E’ difficile scrivere un libro, quando la materia ti cambia ogni giorno davanti agli occhi! Allora lasciare tracce è come seminare, scrivere movimenti di vita in un terreno vivo, restituire continuamente al processo vitale una conoscenza

che è tutt'uno con l’esistenza e con la vita.

 

La terapia del valore: la logica del cercatore d’oro

Ogni attrezzo della cassetta è valido nel momento giusto e con la persona giusta: non ci sono metodiche più valide di altre, come un martello non è migliore di un cacciavite.  Seguendo  la  stessa  logica,  non  ci  sono  persone  giuste  e

persone sbagliate: pregi e difetti sono solo “caratteristiche”, sono funzionali o disfunzionali a seconda di quello che noi ne facciamo.

La  terapia,  quindi,  non  è  un  processo  di  cambiamento  del  paziente,  presunto sbagliato,  da  parte  del terapeuta,  presunto  giusto,  ma  una  scoperta  ed  una valorizzazione delle proprie caratteristiche, attraverso la pratica, la messa a frutto di quelle caratteristiche. Fare psicoterapia significa attivare le risorse di una persona, risorse che  si  esprimono  nella  sofferenza,  ma  che  possono  liberare  la  loro  forza creativa: come il cercatore d’oro cola la sabbia per trovare l’oro, come l’alchimista trasforma in oro il piombo, lo psicoterapeuta libera e coltiva le risorse personali, ciò che rende la persona unica e insostituibile e che emerge soprattutto nei suoi squilibri

e nei suoi disturbi, perché nessuna nascita avviene senza fatica o dolore.

Per  questa  via,  ogni  persona  si  rivela  come  la  specialissima  manifestazione  del creatore. Questo significa vedere Dio nel prossimo: vedere anche la patologia, la sofferenza, la debolezza, non come manifestazioni dell’errore o della deformità, ma come lo sforzo di un nuovo essere che viene alla vita.

Da questa visione, Cesari traeva l’assenza di giudizio nei confronti dei pazienti e degli allievi, dalla curiosità di vedere che razza di albero o di arbusto o di fiore sei, quando riesci a svilupparti dalle tue radici. Da qui il senso originario educativo della terapia: da “educare”, far crescere.

Un’altra esperienza dalla quale traeva ispirazione era quella dello sport: come un buon allenatore, osservava le persone, per vederne le capacità e le tendenze, per incoraggiarle a rivelare e mettere a frutto le loro qualità speciali, a fare le cose che amano di più.

 

Gli allievi

Nei gruppi dei suoi allievi si respirava una straordinaria armonia, perché ciascuno era   primo  nel  suo  essere  unico. Ciò  che  garantisce  un  “gruppo  di  primi”  è  la valorizzazione delle differenze e l’autorevolezza del capo. Questo è anche il senso dell’integrazione, preziosa nella teoria come nelle dinamiche di gruppo: nel giardino c’è spazio per tutti e, ogni volta che una pianta vi cresce o una nuova vi germoglia, anche lo spazio si moltiplica ed il giardino diventa più ricco e più bello. Lo “stile Cesari“ di lavorare con i gruppi mi ricorda la rappresentazione di Dio che una volta mi descrisse un mio amico prete: Dio è un infinito mosaico vivente, che è fatto di tessere tutte diverse. Alcune tessere sono colorate, altre trasparenti o incolori, altre preziose, dorate o argentate. Alcune tessere fanno parte di uno sfondo, altre di figure, altre disegnano confini e margini. Prese da sole, può sembrare che una sia più bella o

preziosa  di  altre,  ma,  se  togliamo  una  sola  tessera  incolore,  il  disegno  perde definizione. Quindi ogni tessera dà senso alle altre ed al disegno e contiene tutto il disegno.

Per prendere le zampate del maestro, bastava lamentarsi e commiserarsi. Ti liquidava con un’alzata del sopracciglio ed una battuta sarcastica, che ti riportava nel rispetto di te stesso, nella tua dignità e nella tua forza. E non esitava a colpire “come un orso che dà le zampate ai suoi cuccioli, perché sa che sono cuccioli di orso”.

Lui vedeva in te quella creatura speciale, fatta come il creatore, che deve solo ricordare  e  rivestire  la  sua essenza divina,  non  ti  permetteva  di  diffamare  o maltrattare  quella  creatura,  non  con  la  sua  complicità.  Di quella  creatura  lui richiamava  la  forza  e  la  sosteneva,  mentre  tesseva  le  sue  virtù,  le  sue  speciali capacità ed i suoi successi con lo stesso filo dei suoi difetti, delle sue debolezze e delle  sue  paure.  Anche  in  questo, imparavamo più  dagli  artigiani  che  dagli intellettuali:  se  pensi  di  avere  un  difetto,  stai  usando  male  un  tuo  strumento.

Se impugni un coltello dalla parte della lama, ti ferisci e senti dolore tanto di più, quanto più forte lo stringi. Se invece impugni il coltello dal manico, lo puoi usare senza farti male. Il coltello non fa niente di per sé. Sta a te impugnarlo dalla parte del manico o da quella della lama.

Gli allievi erano anche  i suoi compagni  di  avventure  sulla nave dei folli. Spesso, durante le nostre sedute di lavoro, come reazione alle sortite più eccentriche di qualcuno di noi, scuoteva la testa ridendo e diceva: “matto come un setaccio”! Poi spiegava: “il setaccio è matto perché butta via la farina e trattiene la crusca”. Una volta,  nel  salutarmi alla  fine  di  una  seduta  di  supervisione,  uscì  con  questa espressione: “matta come un setaccio!” “E’ colpa sua ! – lo avevo redarguito – Io ero venuta da lei perché mi facesse guarire e lei non lo ha fatto”. “Me ne guardo bene: sarebbe un peccato” aveva incalzato lui “ Poi dove li mando i pazienti!” Aveva  poi  ripreso  il  discorso,  in  un’altra  occasione,  quando  aveva  affermato:  “I pazienti vengono in terapia, poi guariscono e se ne vanno. Per questi qui non c’è

mica rimedio. Loro me li tengo come allievi. La malattia dei pazienti guarisce. Un terapeuta  è ammalato di una malattia  che non  guarisce  mai:  i  pazienti risanati vanno e ne arrivano sempre di nuovi che stanno male.

Noi eravamo i “matti convinti”, allievi di un maestro che teneva sempre innescato sulla scrivania “l’elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam. “Il mondo è pieno di matti” diceva spesso Cesari. “I più matti sono quelli che si sentono normali e vedono matti  gli  altri.  Quelli  che  vengono  da  noi  sono  meno  matti  perché  sono  più consapevoli delle loro follie e se ne fanno carico. Noi abbiamo il privilegio di essere consapevoli delle nostre follie e di usarle come strumenti, che, in un mondo sempre più folle, è il solo modo di essere sani”. Anche la follia è una straordinaria risorsa, con la quale giocare, per imparare a gestirla. Una volta, mentre guidava nel traffico, un automobilista lo aveva costretto a fermarsi e lo aveva aggredito verbalmente: “Ma lei è matto!” Lui si era girato a guardare l’aggressore con gli occhi sbarrati e l’espressione assente e, con una voce che pareva venire dall’oltretomba, aveva scandito con impressionante  lentezza:  “E  se fossi matto  davvero,  lei  pensa  che sarebbe prudente dirmelo in faccia così?” L’altro cominciò a balbettare delle scuse e se ne andò, mentre Cesari se la rideva come un matto: cosa sarebbe il mondo

senza un po’ di pazzia! In un’altra occasione, durante una seduta, la paziente che non voleva ottemperare ad una prescrizione ricevuta, aveva esclamato: “Professore, ma lei è matto!” “Sono matto sì – aveva risposto lui sogghignando – se no, non starei qui a parlare con lei!” Quando non hai più paura di essere matto, godi della vera libertà di pensiero e di azione. Cos’altro ti possono fare? E’ l’apoteosi, la disfatta del nemico: integrare la pazzia da persone sane, attraversare l’inferno da vivi, ballare coi dannati e coi diavoli, poi salutarli affabilmente con l’invito a tornare quando vuoi. Se lo prendi per il manico, neanche l’Inferno è così terribile. Ci abbiamo messo dieci anni a concepire un documento, una memoria di Giuseppe Cesari, che ne raccolga l’eredità e la renda disponibile per altri, e, nel tentativo di organizzare  tutta  l’informazione  disponibile  allo  scopo,  ci  siamo  accorti  che  la maggior parte dell’informazione è proprio dentro di noi, nei nostri ricordi e nello spirito che ci ispira ogni giorno nel lavoro e nella vita.

Noi allievi siamo la terra che lui ha seminato, dove i suoi germogli crescono: noi siamo il suo giardino. Per questo, l’eredità del maestro siamo noi. Onorare e conservare questa eredità non è metterla sotto vetro, ma farla vivere, evolvere, trasformare ogni giorno, arricchirla di tutti i nuovi apporti, così come abbiamo sempre fatto con lui.

E’ perciò che offriamo noi stessi come memoria, per produrre un documento che resti disponibile anche per chi non lo ha conosciuto direttamente, in un mondo dove anche la  conoscenza è  ridotta  a  prodotto  di  consumo.  Questo documento  pro memoria non è un omaggio alla grandezza del maestro. Niente potrebbe renderlo più  grande  della  sua  stessa  vita,  anzi,  descriverlo,  costringerlo  nelle  parole,  lo diminuisce un po’, lo limita. In questo caso la memoria è, per noi che lo abbiamo conosciuto, un atto di raccoglimento nel giardino che siamo, per godere insieme dei suoi frutti e dei suoi germogli, ma anche per realizzare il desiderio che di questi frutti possano godere sempre tutti quelli che lo vorranno e che nascano sempre nuove piante nel giardino.